Pubblicato su politicadomani Num 83/84 - Settembre/Ottobre 2008

Un anniversario particolare
La casa di accoglienza San Lorenzo compie tre anni

Un incontro fra i detenuti e don Ciotti per celebrare l’evento

di Maria Mezzina

Quando Mons. Andrea Maria Erba, Vescovo Emerito di Velletri-Segni decise di trasformare l’edificio ex sede della Scuola di teologia in casa di accoglienza per i detenuti del carcere di Velletri e le loro famiglie, c’è stata da parte dei residenti lì attorno qualche perplessità. Ora, dopo tre anni grazie all’impegno di don Cesare Chialastri, responsabile della caritas diocesana e al lavoro, la passione e la generosità di Sara Bianchini, coordinatrice del progetto “Casa San Lorenzo”, e di molti altri volontari, quella “isola” al centro della città è diventata un punto di riferimento non solo per i destinatari del progetto, ma anche per tanta altra gente, volontari, amministratori, artisti, semplici cittadini.
Il fatto è che molte volte ci si dimentica che dietro le sbarre ci sono spesso persone che hanno sbagliato, più o meno deliberatamente, o che in circostanze difficili non ce l’hanno fatta, vittime di una criminalità più grande e molto più sfuggente, oppure semplici “poveracci”. Gente che, varcando quei confini, ha dovuto accettare di vivere in uno spazio ristretto e rinunciare alla propria libertà, ma non alla dignità né alla speranza. Difficile, se non impossibile, per chi entra in carcere trovare lì le ragioni e la via verso il ravvedimento e il reinserimento sociale, come vorrebbe la Costituzione. Sono la buona e sana amministrazione, la pazienza e la sensibilità degli agenti di custodia, il lavoro degli operatori addetti al “trattamento” (tutte quelle attività volte a trasformare la detenzione in un processo di rieducazione e recupero), il lavoro dei volontari, a creare un “ambiente” favorevole al dettato della Costituzione.
Il progetto “Casa San Lorenzo” si inserisce in questo contesto perché non offre solo un tetto, un punto di appoggio, una casa temporanea per i suoi ospiti. Il luogo è diventato punto di aggregazione e centro di attività artistiche e culturali a cui partecipano detenuti in permesso premio ed ex detenuti insieme ad artisti (registi, attori, scrittori, musicisti) e alla gente comune. In una sorta di abbraccio che unisce senza distinzioni chi pur avendo conosciuto la pena ha conservato la sua dignità, e chi con la sua dignità deve fare soltanto conti personali.
La “festa” per questo anniversario è stata celebrata in maniera sobria ma incisiva, con don Luigi Ciotti che è venuto a Velletri e ha trascorso in carcere il pomeriggio, confrontandosi con un gruppo di detenuti. Poi, la sera, si è incontrato in Cattedrale con la città.
È stato, quello del carcere, un incontro informale, per nulla ingabbiato nella deferenza dovuta al personaggio. I detenuti si erano preparati all’evento leggendo alcuni scritti di don Ciotti, riflettendoci, discutendone fra di loro e con i volontari, confrontandoli con le loro esperienze personali e scrivendo loro stessi. Il gruppo che ha partecipato all’incontro (non tutti coloro che avevano fatto questo percorso hanno avuto la possibilità di essere presenti) ha anche, in un certo senso, condotto l’incontro perché il dialogo è stato immediato e spontaneo.
La storia di don Ciotti, delle sue prima esperienze di vita di strada alla stazione di Porta Nuova a Torino, non li ha impressionati più di tanto. Molti di loro si portano dietro esperienze molto simili, vissute dalla parte di chi di queste esperienze è rimasto vittima o si è reso responsabile. Hanno raccontato la loro storia, hanno espresso perplessità sulla bontà del sistema, hanno puntato l’indice contro chi della loro condizione si riempie la bocca e ne fa oggetto di “belle parole”, con forza hanno accusato di cannibalismo la stampa. A ruoli invertiti, loro, condannati al carcere dalla giustizia di fuori, nel carcere si sono alzati a giudicare e a condannare gli altri - noi altri - di fuori in nome della loro dignità calpestata e rivendicando il loro diritto ad esistere, a pensare, e ad esprimersi. Loro, giudici. Gli altri, don Ciotti compreso, accusati e condannati. Lo hanno fatto in modi diversi, chi più apertamente, chi con maggiore tatto e diplomazia. Uniti, tuttavia, nelle loro rivendicazioni e nel loro giudizio.
È a quel punto che don Ciotti ha parlato di “credibilità”. I discorsi hanno senso se vengono da persone credibili, che si mettono in gioco fino in fondo. La condanna è credibile se viene da un sistema che assolve i suoi compiti di tutela del singolo e della comunità - tutti i singoli, e tutte le comunità.- combattendo ogni forma di esclusione sociale e di stigmatizzazione. Un compito e un dovere che è del sistema ma è anche di ciascuno di noi, detenuti compresi.

 

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